L'incisione
e il tempo dello
sguardo
Il
nodo centrale sul quale insiste il lavoro di Francesca Poto
resta l'immagine intesa quale espressione di un pensiero figurato
e, al tempo stesso, esercizio di un delicato rapporto creativo
degli occhi e delle mani, riconosciuto come componente di una
capacità di riflessione o, meglio ancora, di un'identità
esistenziale. L'ampio ciclo di incisioni sul tema dell'aria,
qui raccolto, è il punto d'approdo momentaneo del suo
incedere negli sviluppi di una pratica, quella dell'incisione,
declinata nell'ampio spettro di tecniche che, dal bulino alla
punta secca all'acquaforte, si spingono all'acquatinta e al
carborundum: il suo è un modo di intendere la pratica
che non si fa solo esercizio, vale a dire processo tecnico,
bensì parte attiva e di sollecitazione dell'immaginario
reale. Una scelta che, a dire il vero, era ben presente già
dalle esperienze avviate a metà degli anni Settanta,
quando, cioè, ho avuto modo di seguire le sue prime lastre,
sulle quali interveniva con il corsivo segno dell'acquaforte,
una tecnica che le offriva la possibilità di costruire
l'immagine, soprattutto la figura, senza rinunziare al dettato
di 'realismo' percettivo che portava in eredità dagli
anni dell'Accademia, in primis dall'insegnamento di Armando
De Stefano suo maestro di pittura.
Era
un segno capace di tradurre il senso plastico delle cose e dei
corpi attraverso il giusto dosaggio del chiaroscuro ottenuto
sia graduando il valore cromatico, quindi i toni del grigio
agendo sul tempo delle diverse morsure, sia calibrando lo spessore
del segno tale da costruire un'architettura di linee funzionali
capaci di plasmare la materia, di suggerirne il movimento, lasciando
libera la composizione di accogliere figure che si sovrapponevano,
secondo una simultaneità - come nel caso di Fragile,
una lastra realizzata interamente all'acquaforte - scandita
dai tempi delle incursioni nella memoria. Successivamente sul
finire di quel decennio - in tal senso penso ad incisioni quali
Grand Illusion ma anche a La sposa scende le scale, quest'ultima
animata da un'equilibrata luminosità del fondo affidata
all'acquatinta -, l'artista avvertiva la necessità di
esemplificare il dettato compositivo, in pratica di rivedere
il rapporto con lo spazio bianco del foglio, misurandosi con
la tenuta della grana della colofonia, portata agli estremi
con grigi chiarissimi, quasi a sfumare, come filigrana, nel
bianco del fondo, facendo assumere a quest'ultimo, dunque un
carattere cromatico, un timbro, definendo così la luce
e la materia di uno spazio. I segni costruttivi della figura
erano ridotti a poche linee essenziali, tante quanto bastavano
a disegnare la silhouette della donna o i brani dell'architettura
che l'accoglie: un'esemplificazione che doveva rispondere al
testo 'narrato', cioè ad un racconto che attingeva al
proprio vissuto, ad una dimensione interiore.
Il
dato realistico non deve trarre in inganno, anzi serve solo
a dare sostegno ad un dichiarato simbolismo, non privo di visionarietà
che l'artista, soprattutto per la resa della figura della prima
delle incisioni citate, sembra attingere da alcune soluzioni
formali di Klinger. Una visionarietà che, nelle opere
odierne, è maggiormente dichiarata sia per l'entrata
in scena della sirena, figura che lega la sua immagine al regno
dell'aldilà ma anche alla seduzione mortale, sia per
l'assunzione, a piccoli passi, del colore, del suo valore simbolico
che avvia lo sguardo oltre il confine della configurazione,
seducendolo, traendolo nell'inganno ordito da una raffinatissima
tessitura di segni, di punti scolpiti con il trapano, con le
frese, con le punte d'acciaio, tali da accogliere più
inchiostro e, quindi, restituire il senso materico e poroso
della roccia, degli scogli, delle pietre, proprio come fosse
l'impronta lasciata da esse sull'assorbente letto della carta.
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La
figura della sirena, creatura d'aria con le ali e il corpo piumato
di uccello e la testa di donna, suggerisce un senso duplice, ossia
la razionalità e l'istinto: è un mostro assunto
dalla mitologia che nasconde in sé pulsioni primitive che
l'artista evidenzia attraverso la descrizione di luoghi irreali,
pervasi da una luminosità che rende maggiormente inquietante
l'immagine, dettata da un colore algido del cielo, come è
per Antarctica, del 2006, realizzata abbinando la trama pittorica
dell'acquatinta con il segno corsivo dell'acquaforte, oppure forzando
sul dato emotivo del ricordo, attingendo da memorie di viaggi
come per Baires e, soprattutto, Bahía inútil, sempre
dello stesso anno, ove interviene sulle variazioni luminose del
nero, orchestrate dal bulino, che scava segni netti e decisi,
dalla puntasecca che lascia, nelle sfumature delle barbe, preziose
velature, mezzi toni che fanno respirare altre arie e, infine,
l'acquatinta che accoglie le atmosfere emotive dei colori.
Atmosfere
nelle quali, con i lavori realizzati nel 2007, ad esempio Terraquea
un trittico di grandi dimensioni, si fa più pressante la
necessità di affidarsi al valore simbolico del colore,
inserendo campiture piane di tinte sature sulle quali far raffreddare
grumi di inchiostro, di materia.
Una
traiettoria di ricerca, sul piano squisitamente tecnico, di pratica
creativa, che spingerà Francesca verso un segno che si
fa rilievo, dichiarato spessore, denso, corposo che l'artista
ottiene con il carborundum, speculando sulle suggestioni luminose
suggerite dalle ultime incisioni di Miró, su quei neri
pervasi da una misteriosa (tenebrosa) luce. In Sounion, incisione
realizzata all'inizio di questo anno ove trova nuovamente forma
una visionarietà sobillata dalla mitologia, la plastica
architettura del colonnato del tempio, modellato dal nero intenso
del carborundum, è esaltata da effetti di un'illusoria
matericità resa dall'uso di paste acriliche - una new entry
nel 'ricettario' delle tecniche calcografiche.
Come
si osserva l'esperienza creativa di Francesca Poto è segnata
da un sincronismo fra lo sviluppo narrativo dell'immagine e la
pratica, cioè l'esercizio delle tecniche con le quale si
esprime: il punto di sutura si ha quando, come nel caso delle
due grandi incisioni a più lastre dal titolo In canto terminate
di recente, la composizione rimette in discussione tutto, aprendo
varchi a nuove tecniche di rapporto con la realtà ottico
percettiva, ma anche ad un nuovo linguaggio.
Le
grandi lettere rosse dell'alfabeto greco sono disposte in rapporto
alle immagini, attinte, queste ultime, ad un personale album mentale:
le lettere assumono il valore di pittogrammi che interferiscono
nel testo narrativo dei brani figurali, disegnando un abbecedario
di forme, con intervalli ritmici tali, però, da non distrarre
o, meglio, evitando facili avvicinamenti, quasi da rebus. La scrittura
è assunta come linea colore, esclamazione, suono, parola,
canto, visione: l'immagine non è consonante ad essa, ossia
non si colloca al suo fianco come dichiarazione percettiva, quanto
ulteriore scrittura che prende in prestito dalla fotografia la
capacità di tradurre la luce in segno.
La sua esperienza si proietta verso nuovi tracciati che lasciano
intuire una rinnovata curiosità per l'immagine assunta,
ora, come diaframma che collega il pensiero, quale emanazione
della coscienza, al mondo delle relazioni sensibili.
Massimo
Bignardi
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