Il
silenzio delle sirene
Marco
Alfano
Francesca
Poto ha intrapreso negli ultimi anni riflessioni di grande coraggio
sulla figura, e sul senso riposto e contemplativo della necessità
del "comporre". L'artista, nelle sue incisioni, arricchendo
e sviluppando la sua esperienza nelle tecniche calcografiche,
combina il segno netto e scolpito del bulino e della puntasecca,
alla levità dell'acquatinta, generando un "corto circuito" tra
pesantezza del mezzo e ricerca della leggerezza.
Negli anni della sua formazione, all'Accademia di Napoli, intorno
alla metà degli anni Settanta, si trovò ad assistere al confronto
tra il recupero, sentito allora come attuale, di un disegno
esemplato sulla fotografia, e la necessità di accostamento ad
una sorta di stilismo internazionale, come l'informale; trovando
anche chi, tra i suoi maestri, come Armando De Stefano, all'assunzione
figurale andava associando intenzioni di rigorosa coerenza etica,
recuperando la tradizione ottocentesca del realismo, sostenuto
da nuova tensione immaginativa, e non più integrandola, semmai
cólta e difficile, e in fondo ancora incompresa.
In
quel periodo, mi racconta Francesca, prediligeva del linguaggio
dell'acquaforte, l'austera analisi, la tecnica lenta, indagando
con distacco consapevole alcuni volti, scoprendone i segni del
tempo (nell'aspetto fisionomico un po' crudo e nel tratto molto
fermo), dove il disegno si rendeva registro sensibile di una
distanza di osservazione affettuosa, in una forma controllata;
e questo in anni in cui quasi nessuno resisteva all'imperativo
di ammodernarsi, anche su ciò che moderno non era più, come
l'informale; già imperversava, trionfante, l'idea di "modernità",
che non ammetteva nello statuto dell'arte l'esistenza di un'immaginazione
accorata.
L'esitazione,
e l'avventato provarsi, in un mondo dell'arte avvertito così
diverso dalla propria natura, le hanno concesso di tornare ripetutamente
sui suoi passi - ma si tratta di un tempo che andrà considerato
prezioso e fecondo - anche nell'assiduo attaccamento dell'insegnamento
ai giovani. Sul piano etico, in decenni difficili e conformisti,
quando la fiducia in un progresso indefinito si andava mutando,
nei primi del nuovo millennio, nel recupero dei "fondamenti",
tale riserbo ha indotto a pensieri che intendono cogliere le
potenzialità dell'immaginazione, indugiando più che sul mistero
di una modernità indecifrabile, sulla profondità e sulla bellezza
dei miti antichi, che la sua mente solo presagiva e che poi
avrebbe rivelato.
È
quel che osservavo, nelle sue incisioni, già nell'estate del
2006, durante una visita alla sua casa-studio, considerando
un'immaginazione svincolata dalle mode, che si rivelava esemplare,
per comprendere come questa procede e si manifesta. Aveva intanto
assunto con convinzione alcune tecniche come l'acquaforte e
l'acquatinta, che meglio esprimono la sensazione di leggerezza
e liquidità, ma anche l'acquerello e la pittura a olio, quest'ultima
intesa come superamento della naturale opacità del supporto,
nel recupero della tecnica delle "velature", in un'esplicita
assunzione di linguaggio che è già un esercizio meditativo -
e quindi già di provocatoria inattualità - , che intende scalzare
altre soluzioni, come quelle che si affidano ai modi eccessivi
della pittura "a corpo", originatasi dal realismo ottocentesco,
e recuperata potentemente anche dalla generazione dell'informale.
Sin
da subito, questa ricerca mi è sembrata importante testimonianza
di un'artista che intende oggi ripensare ideologie e programmi
generazionali, cresciuti a dismisura fino a soffocare l'ispirazione
e il calore dell'immaginazione; una tendenza che ha portato
a limitare, ad esempio, nelle scuole d'arte e nelle accademie,
l'insegnamento del disegno a favore di una "libera" espansione
della creatività. L'imperativo è, ancora oggi, quello di essere
"contemporanei" e sprovincializzarsi, preferendo un aggiornamento
obbligato e conformista alle tendenze dell'arte attuale; una
tragedia che ha condotto ad una devastante povertà immaginativa
e sentimentale di un'arte che il più delle volte misura la sua
grandezza su azzardi, sull'invadenza materiale. Francesca è
persuasa, invece, delle potenzialità che il disegno e la figura
preservano nel loro "lessico" fondamentale, da intendersi quale
"diario" necessario, ove trascrivere con sincerità i propri
pensieri.
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Avevo
considerato, della bellissima serie dedicata alle Sirene, la prima
incisione a bulino, puntasecca e acquatinta, dal titolo Bahìa
inutil, dove si rivelava il senso misurato di uno dei miti fondanti
della cultura classica: nella rupe sassosa, modellata lentamente
in profilature nere, o seppia, dell'inchiostro, sembrava aver
a lungo meditato sui rocciosi paesaggi di Klinger, non seguendo
una pretesa oggettività, di attenta trascrizione del "vero", bensì
comprendendone l'alto valore di concentrazione mentale. Erano,
questi ultimi, quegli stessi effetti di lucidità intellettuale
e purezza spirituale che ritrovavo nel tono esaltato infuocato
del cielo, nel rovinoso precipitare nel baratro della creatura
alata, metà donna e metà uccello, che, sconfitta da Odisseo, si
getta a precipizio sulle rocce. Per la tecnica, Francesca mi spiegò
della difficoltà di controllare l'ardua sperimentazione intrapresa
nell'assemblaggio di tre matrici incise, affidandosi per la stampa
all'esperienza paziente di Vittorio Avella e Tonino Sgambati,
ottenuta con la messa a registro d'impressioni successive delle
lastre di zinco sul medesimo foglio.
Alla
cadenza solenne e cupa di questa prima incisione, seguiva una
sequenza di altre due, Antarctica, dove la Sirena si staglia sul
cielo acceso da bagliori aurorali, in rosa, rosso, arancione;
è immobile, su di una sponda di ghiaccio, prima del suo volo disastroso;
in un'altra immagine, appare raggiunta dalla preveggenza mortale
figurata dagli uccelli neri. Erano opere, dove l'artista aveva
ritrovato l'inquieto mistero del canto delle Sirene, che potrebbe
anche capovolgersi, secondo un celebre frammento postumo di Kafka,
nel loro silenzio. Ulisse era stato condannato all'Inferno da
Dante, ha scritto Massimo Cacciari, poiché la sua sconsiderata
hybris non appariva "giustificata" da alcun valore trascendente;
l'eroe ingannatore, dopo l'assedio di Troia, aveva indotto i suoi
compagni a proseguire verso una meta indefinita, a compiere il
"folle volo". Era, quello di Ulisse, un amore per la conoscenza,
non indirizzato alla "sapienza", bensì animato da curiositas,
per le cose del mondo, in una prospettiva mondana, "orizzontale",
che conduce l'umanità inevitabilmente al naufragio.
Quell'immagine
della Sirena mi sembrò una sconvolgente "metafora" dell'arte contemporanea,
divorata dal demone della techne, del nostro sconcerto al vuoto
delle sue proposte opache, senza sincerità. E se era il silenzio,
quello che Odisseo finse di non sentire quando incontrò le Sirene,
o non intendendo le loro "parole alate", disposte secondo un'ascesi,
in un ordine "verticale", ulteriore, tale assenza non è identica,
quindi, all'angoscia che afferra un'arte che appare ripiegata
su se stessa, in assunzioni ingegnose di elementi slegati tra
loro?
Nell'ultima sequenza, Baires, la Sirena precipita infine verso
una città deserta (che potrebbe essere una qualsiasi metropoli
del mondo), spogliata oramai di storia e d'identità: figura contratta
di una civiltà che ha decretato la fine di ogni mito, dimentica
del potere femmineo e celeste d'immaginazione della Sirena, che
ricompare sul foglio come segno vascolare, alla quale, nell'ultima
immagine, si associa l'arrivo terribile e oscuro degli uccelli.
Nelle
due grandi incisioni, dal titolo In canto, assemblaggio
di trenta matrici di zinco, Francesca associa al segno inciso
del bulino e della puntasecca, l'esile fluidità di lastre lavorate
all'acquatinta: alcune di queste hanno la nostalgia di una bellezza
che sembra decomporsi, attingendo ai miti mediterranei esaltati
con luminosa purezza dalle fotografie di Hellas di Herbert List,
con giovani nudi, in fisionomie moderne, tra frammenti di bianchi
marmi. Ma l'ipotesi che si possa trattare di un assemblage di
derivazione surrealista, nell'alternanza di immagini e lettere
- avec étonnement, recita ironico un titolo sonoro di Erik Satie
- , subito svanisce nell'intendere il comporre diverse immaginazioni,
che alludono al silenzio, quale custode del canto, alla ricerca
di una verità di cuore, piuttosto che visiva; sino a spingersi
al sorriso, al commosso saluto di Édith Piaf alla platea, ancora
vibrante della sua voce struggente e patetica; e lo stupore di
coloro che scorgono ancora la Sirena, che inonda con la sua ombra
il cielo ristretto dei giorni nostri.
In
altre incisioni, più recenti, l'apparizione, inquieta e scabrosa,
dell'esile e liquidissimo profilo di Molpo, lascia il passo alla
lentezza, al tempo sospeso, alla forma più serena, in Argot, del
bronzo levigato nei corpi degli atleti di Pompei; e, infine, il
ritorno temerario della Sirena, in Sounion, sull'alto pronao di
un tempio in rovina, il cui basamento appare scosso dall'intensità
nera profonda del carborundum; sono immagini che rivelano l'incessante
aspirazione di Francesca Poto a una forma che vuole evocare la
bellezza antica, e allo stesso tempo, il senso dell'occasione,
audace ed amabile, del segno.
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